La strada che resta
Non c’è rumore nella partenza.
Solo un piccolo vuoto che si apre, come una finestra appena socchiusa.
Partire da soli non è un atto di forza.
È un atto di fiducia.
Nel mondo.
Negli alberi che cambiano lingua da regione a regione.
Nel silenzio che sa dire cose che nessuno sa più pronunciare.
Non ho tutte le parole.
Ma ho una direzione.
Ed è abbastanza.
La partenza e il silenzio
Riparto.
Ancora una volta.
Non è la prima, e forse non sarà l’ultima, ma ogni volta ha qualcosa di unico, anche se la partenza somiglia a quella dell’anno scorso, o dell’anno prima.
Io, il mio van, il mio scooter legato dietro come un compagno fidato, pronto a portarmi ovunque. Basta una discesa, una svolta, e già sono immerso nei luoghi che amo cercare: paesaggi che parlano piano, che non chiedono niente, ma ti lasciano qualcosa.
Non è la prima volta. Non fuggo da niente.
Vado. Cammino verso qualcosa, anche se non sempre so esattamente cosa. La bellezza di certi luoghi. La luce di un’ora precisa del giorno. Il silenzio di una strada secondaria. Ma soprattutto, la possibilità di stare in ascolto. Di me, degli altri, di quello che la vita continua a suggerire con voce bassa.
Tutto è cominciato dopo un’estate difficile, quella del 2021. Una diagnosi oncologica, una paura profonda, un corpo che vacilla, una mente che si chiude.
Il dolore più grande non è stato solo fisico: è stato lo smarrimento, la solitudine interiore, la perdita di un equilibrio che credevo solido.
Ho avuto aiuto, sì. Ma poi è stato necessario andare.
Muovermi. Uscire.
La mente ha fatto più fatica del corpo.
Da allora, ogni viaggio è anche un percorso verso di me.
Non è facile. Non lo è mai del tutto. Ma mi fa bene.
La partenza, a volte, pesa. Ma poi succede qualcosa lungo la strada: il respiro si allarga, i pensieri si aprono, le ombre si spostano.
La strada, con i suoi tempi, i suoi silenzi, le sue sorprese, mi riporta sempre a me stesso. E mi ricorda che sto ancora vivendo, che posso ancora cercare, ancora meravigliarmi.
E allora capisco: il viaggio è il mio modo per riconciliarmi con la vita.
Ci sono luoghi che mi parlano più di altri. La Galizia, le Asturie, la Cantabria. Li sento affini, forti, veri. Come se sapessero cosa ho passato, e senza dire nulla, mi accogliessero lo stesso.
In questi chilometri c’è una forma di preghiera silenziosa.
Una fede che non ha nome, ma che si muove dentro.
Un cammino che è tutto mio, ma forse appartiene a molti.
A chi ha avuto paura.
A chi ha deciso di non fermarsi.
Capitolo 1 – Verso la linea sottile
Mancano una decina di giorni alla partenza.
Sto cominciando a guardare le cartine, a farmi un’idea.
Quale valico attraversare? Dove agganciare la Spagna?
Come ogni volta, non ho un piano preciso.
E, come ogni volta, questa incertezza mi piace e mi spaventa insieme.
Potrei accelerare, scendere in fretta, guadagnare chilometri.
Ma non è questa la mia idea di viaggio.
Non cerco la strada più veloce.
Cerco quella che parla.
L’obiettivo, però, è chiaro.
L’Oceano.
Voglio arrivare sull’Atlantico, prima lungo la costa francese, nella zona tra Biarritz e Léon, e poi varcare il confine per entrare nei Paesi Baschi spagnoli, attraversare la costa del Mar Cantabrico — che è pur sempre oceano, ma con un nome più nervoso, più frastagliato — per poi risalire fino a La Coruña, scendere lentamente verso Malpica, Santiago de Compostela, e infine Finisterre.
È lì che voglio arrivare.
Dove finisce la terra. E comincia qualcos’altro.
Ho già percorso quelle zone, almeno in parte.
La costa atlantica francese l’ho vista e vissuta: selvaggia, ventosa, con quelle spiagge immense e quasi pericolose, in cui a volte sei solo con te stesso e il sale del mondo.
E poi la Spagna del Nord — questa sarà la terza volta che la attraverso — ma mai come ora con il desiderio di perdermi davvero.
La Cantabria, le Asturie, la Galizia: sono luoghi dove il verde non si arrende mai, dove le montagne si buttano nel mare, e sembra di essere in Irlanda, ma con l’anima spagnola.
Il mio desiderio, questa volta, è quello:
perdermi nel verde e nel blu.
Restare aperto. Guardare. Camminare.
Magari fare qualche trekking tra i Picos de Europa, o dentro quelle valli interne che sembrano abitate solo dal silenzio e dal vento.
E poi c’è un pensiero ricorrente.
Che bello sarebbe avere con me un compagno a quattro zampe.
L’ho desiderato spesso.
Noi, in famiglia, abbiamo avuto Odie, un meticcio fiero e testardo.
È stato con noi per diciassette anni.
È mancato l’anno scorso.
Un fratello per nostra figlia, un animale dominante con cui avevo una continua rivalità affettuosa: lui voleva comandare, io pure. Ogni tanto ci scappava una mordicchiata, ma ci si capiva.
Quando c’è un cane in casa, la casa cambia.
C’è un legame, una presenza.
Fa famiglia, anche quando ti costringe a uscire sotto la pioggia o ti ruba il posto sul divano. E oggi, mentre penso a questo viaggio, mi manca.
Mi manca avere qualcuno accanto che non dice nulla, ma c’è.
Non so ancora quale valico sceglierò: il Monviso, il Moncenisio, il Colle della Maddalena, o forse un altro.
Lo capirò il 17 luglio, al mattino, quando salirò in furgone, accenderò il motore e la strada mi suggerirà da che parte andare.
Io non ho mai saputo disegnare rotte.
Ho imparato solo a fidarmi del passo.
E anche questa volta, sarà così.
Appunti dalla sala d’attesa
Mancano un paio di giorni alla partenza.
E io, come capita spesso negli ultimi tempi, accompagno mia moglie, mia suocera o mio suocero agli ospedali.
Sono novantenni, pieni di acciacchi, pieni di storie.
Li accompagno, parcheggio la macchina e poi mi ritrovo a fare quello che ormai è diventato quasi un rito silenzioso:
mi siedo nella hall, oppure in una sala d’attesa, e guardo.
Non solo osservo — guardo davvero.
Guardo le persone.
Cerco di immaginarne le storie, le paure, i motivi per cui sono lì.
Provo a leggerli dentro, anche se inevitabilmente un primo giudizio parte sempre dall’esterno.
A volte mi scopro a valutare fisicamente le persone, soprattutto sulla parte alimentare, lo ammetto.
Non lo faccio con cattiveria, ma con quella deformazione da osservatore, che ogni tanto prende il sopravvento.
Eppure poi, ogni volta, qualcosa mi blocca e mi riporta all’essenziale. Perché lì, in quegli spazi sospesi degli ospedali — che sia l’ospedale di Borgo Trento o un altro poco importa — succede sempre la stessa cosa:
le maschere cadono.
E le persone si mostrano per quello che sono: fragili, vere, umane.
Quelle stesse persone che magari, fuori da qui, sembrerebbero sicure, rigide, inattaccabili.
Qui dentro hanno lo sguardo basso, la voce più morbida, o le mani che tremano appena.
E allora capisco che non possiamo sapere mai davvero cosa c’è dietro.
Dietro ogni volto, dietro ogni passo incerto o deciso, c’è un bagaglio invisibile.
Un carico che ognuno si porta dietro, silenziosamente.
Dietro un sorriso sereno, a volte c’è uno sforzo immenso per tenerlo acceso.
Un atto di coraggio.
Un regalo al mondo, a chi ti guarda, anche se dentro stai franando.
E allora mi chiedo:
quante volte giudichiamo troppo in fretta?
Quante volte ci convinciamo che qualcuno stia bene, solo perché non si lamenta?
Mi piacerebbe ricordarlo, anche per me stesso:
ogni persona ha un cammino che non si vede, e prima di dire qualunque cosa, bisognerebbe imparare ad ascoltare anche il silenzio di chi abbiamo davanti.
Chi è Anna?
Me lo sono chiesto spesso.
Non nel senso anagrafico, o biografico. Quello lo sapevo bene: il suo ruolo, il contesto, il settore difficile che entrambi abitavamo in quegli anni — il mondo complesso dei lavoratori della Fondazione Arena di Verona.
Io seguivo quel settore per lavoro, come sindacalista.
Lei c’era dentro – un soprano del coro – in mezzo, ma sempre un po’ più in là. Come se avesse una vista più lunga. Come se ascoltasse più profondamente.
Chi è Anna, allora?
È una donna che è entrata nella mia vita nel momento in cui tutto, dentro di me, si stava rompendo.
Era il 2021. Il momento in cui la parola “tumore” mi è caduta addosso senza preavviso.
Non ero pronto.
Nessuno lo è mai, ma io ero proprio nudo.
La paura non era solo della malattia — era della sofferenza, della fine, della perdita di controllo. Mi sembrava che tutto si stesse dissolvendo. Mi sono trovato in posti lontani, remoti, a telefonare a mia moglie chiedendole di venire a prendermi.
E non era solo un “aiutami”.
Era un “salvami”.
La mia testa stava cedendo, più del corpo.
Poi, nel mezzo di quella oscurità, è arrivata lei.
Anna. Non con grandi parole. Non con miracoli.
Solo con una presenza e una fede che non voleva convincere, ma solo mostrare. Lei non mi ha tenuto per mano.
Mi ha indicato dove fosse la porta.
La porta era aperta.
Io sono entrato.
Non è successo tutto in un giorno. All’inizio ci sono entrato con disperazione, come si entra in una chiesa durante un temporale. Non per convinzione, ma per bisogno. Ma da quel bisogno è nato qualcosa.
Una connessione con Cristo.
Un camminare accanto.Un sentire che c’era qualcosa, qualcuno, più grande, più paziente di me.
C’era la chiesetta di San Felice, lì dove andavo spesso.
C’erano i percorsi a piedi, fatti da solo, in silenzio.
Non avevo voglia di parlare con nessuno. Ma sentivo che Dio, o forse solo qualcosa di buono, mi ascoltava anche senza parole.
È la mente, sai, che fa più male.
Il tumore è una diagnosi.
La mente, quando cede, è un abisso.
Eppure qualcosa mi ha tirato su. Qualcuno.
Quella fede che non avevo più, che non cercavo neppure.
Che Anna ha saputo non impormi, ma solo accendere, con una luce piccola. Come una candela nel fondo di una stanza buia.
Ancora oggi quella luce è accesa.
Non sempre forte.
Non sempre chiara.
Ma c’è.
E io la seguo.
Il profilo nella parete
19 novembre 2021. È la data dell’intervento.
Da giugno sapevo di avere un tumore. Silenzioso, sì, ma presente. Nei mesi della diagnosi — giugno, luglio, agosto — dentro di me cresceva un’ombra.
Il corpo teneva, la testa meno.
La paura non era solo della malattia, ma della sofferenza, del fine vita, della perdita di controllo. Era come camminare sull’orlo di un vuoto che non si vede.
Avevo lasciato aperte due possibilità e affidato il mio nome a due ospedali: il Don Calabria di Negrar e il Pederzoli di Peschiera. Mi sarei operato dove mi avessero chiamato per primi. Ha chiamato Negrar.
E da lì ho cominciato a capire qualcosa di diverso: cosa significa affidarsi.
Non era solo fidarsi dei medici. Era un movimento interiore.
Mi affidavo a loro, ma anche a qualcosa che iniziava a muoversi più in profondità. Qualcosa che non sapevo nominare con precisione, ma che avevo cominciato a riconoscere da poco, grazie ad Anna. Lei non mi aveva spinto verso nulla, solo indicato una direzione. Io avevo cominciato a percorrerla.
Dopo l’intervento mi sistemarono in una stanza doppia. Il mio compagno era Don Giovanni, un sacerdote. I suoi problemi erano ben più gravi dei miei, ma lui portava una calma che mi colpiva.
Pranzavamo insieme, parlavamo poco.
Mi osservava, io lo osservavo.
Lui diceva, parlando al vescovo: “Sono in camera con un laico”. Aveva capito subito che io, di certe cose, sapevo poco. Ma io lo ascoltavo con attenzione.
Provavo ad aiutarlo, in realtà forse cercavo “ancora una volta” di piacere. Di farmi vedere buono.
È un tratto del mio carattere che con il tempo ho cercato di limare. Ma allora era ancora vivo.
E poi è arrivato quel momento.
Era il pomeriggio del 19 novembre, poche ore dopo l’intervento.
Mi ero svegliato dall’anestesia, che era stata totale. Ero lucido, ma non del tutto.
La stanza era tranquilla, ma qualcosa si muoveva nella mia mente.
Sulla parete, sopra una cornice, cominciai a vedere figure che salivano fino al soffitto.
Erano teste scolpite, come quelle delle cattedrali gotiche, ma più romane, più spigolose.
Non erano serene. Mi inquietavano.
Mi alzai.
Toccai la parete, cercando un riflesso della finestra.
Niente.
Erano solo nella mia testa. Ma erano lì. Vive.
La paura prese il sopravvento.
Cercai di pregare, ma non ricordavo nemmeno le preghiere più semplici. Sapevo che le conoscevo, ma erano sparite.
Don Giovanni dormiva.
Io tremavo.
Avevo con me un rosario rosso che Anna mi aveva regalato, dicendomi che era appartenuto a un ragazzo malato. Lo stringevo forte, come si stringe qualcosa che salva.
Ed è in mezzo a quelle figure, proprio al centro, che l’ho visto.
Il profilo di Padre Pio.
Chiaro, netto, piccolo ma distinto.
Guardava verso destra, con espressione quieta.
Non parlava.
Non si muoveva.
Era solo presente.
E la sua presenza era l’unica cosa buona dentro quella visione.
In quel momento qualcosa è cambiato.
Non ho avuto parole, ma ho sentito una certezza.
Che non ero solo. Che qualcuno c’era con me, anche se io non lo avevo chiamato.
Mi calmai.
Arrivarono gli infermieri. Mi diedero dei calmanti.
Dissero che era l’effetto dell’anestesia, dei farmaci.
Sì, certo!
Ma per me quella visione è vera.
È mia.
E ha segnato un prima e un dopo.
Da quel giorno, San Pio è diventato il mio angelo custode.
Non come immagine da venerare, ma come presenza silenziosa, che cammina accanto.
Una guida.
Un volto nella memoria.
Un segno della porta che Anna mi aveva aiutato a trovare.
Questo episodio l’ho raccontato. Non a tutti.
A mia moglie, a mia figlia, ad Anna, e a pochi altri.
A chi poteva ascoltare senza spiegare.
A chi sapeva accogliere.
E da allora, ogni giorno, ringrazio.
Non per il miracolo.
Ma per non essere caduto da solo.
Daniela
Non stavo cercando lei.
Cercavo qualcuno che mi aiutasse a reggere la testa, che in quel momento era più malata del corpo.
E invece ho trovato Daniela.
O forse, è stato il fatto a farmi trovare da lei.
Era il 2021, subito dopo la diagnosi.
Stavo cominciando a guardare tutto da un’altra angolazione, cercando di sistemare anche l’alimentazione, sperando che il cibo potesse almeno darmi la sensazione di fare qualcosa di utile per me.
Così sono andato da una nutrizionista, Rosella, da cui andava anche mia moglie.
Una visita come tante, un colloquio in uno studio tranquillo.
E lì, quasi senza volerlo, mi sono aperto.
Le dissi che stavo cercando un psicoterapeuta.
Le dissi che c’era un nero nell’anima che non riuscivo più a reggere da solo.
Sono sempre stata una persona solare e sorridente.
Anche nei momenti peggiori, ho cercato di non pesare sugli altri. Forse a mia moglie, a mia figlia, sì — a loro qualche silenzio più pesante l’ho lasciato. Ma agli altri, mai.
Anche quel giorno, quando uscii dallo studio, trovai la forza per sorridere.
C’era una signora in sala d’attesa. La salutai con gentilezza, anche se dentro stavo affondando.
E quella signora era Daniela.
Non lo sapevo ancora. Ma era lei.
Una psicoterapeuta stimata, di età matura, vicina alla soglia dei settant’anni, che lavorava con pochissimi pazienti, e solo se sentiva di potersi rendere davvero utile.
Dopo poche ore, Rosella mi richiamò.
Mi disse che la signora con cui mi ero incrociato, dopo aver parlato con lei, si era detta disposta a incontrarmi.
Era un segno. Una botta di vita.
E io l’ho accolto.
Daniela era formale, diretta, concreta.
Non faceva carezze, non dava conforto gratuito.
Ma mi ha tenuto in piedi.
Mi ha aiutato a restare con me stesso nei momenti peggiori.
All’inizio la frequentavo una o due volte a settimana. Poi con regolarità, una volta alla settimana per diversi mesi.
Ci siamo seguiti così, fino al 2022, quando è tornato il male, la recidiva.
E anche lì, non mi ha lasciato da solo.
Non è stato un percorso facile. Anzi.
Uscivo da quelle sedute a pezzi, svuotato.
Spesso dicevo a me stesso: “Non torno più”.
Mi sentivo sfinito, ferito, toccato in punti dove non volevo più mettere le mani.
Daniela sapeva dove toccare.
Sapeva tirare fuori.
Non solo le fragilità recenti, ma le mie debolezze di sempre: quelle dell’adolescenza, della vita adulta, della quotidianità. Quelle crepe invisibili dell’uomo, che si nascondono sotto la forza apparente, il lavoro, il sorriso pronto. Quelle che avevo imparato a mascherare.
Daniela le ha viste. E le ha lasciate affiorare.
Non sempre senza giudizio.
In almeno un’occasione, quando le ho raccontato qualcosa di me, è stata durissima.
Mi ha guardato negli occhi e ha espresso un giudizio netto, diretto, senza sconti.
Non era crudeltà, ma verità.
L’ho sentito come un colpo.
Mi ha messo in discussione.
E mi ha fatto bene.
Quando siamo arrivati al punto finale, l’ho capito io per primo, ma credo che anche lei sapesse.
Ci siamo lasciati con rispetto.
Un saluto, un abbraccio contenuto.Non c’era bisogno di dire altro.
Daniela è stato un mattoncino decisivo nella mia ricostruzione.
Non mi piace parlare di “nuova nascita”, ma di sicuro lei ha aiutato la mia ricostruzione.
Ha tirato fuori quello che non avevo il coraggio di guardare.
Mi ha ferito, sì. Ma per guarire.
Ancora oggi, quando penso a lei, mi viene un’emozione che non è tristezza.
È riconoscenza piena.
Perché mi ha visto.
E anche se ogni seduta era come un piccolo crollo, alla fine ne uscivo più vero.
Più vicino a me stesso.
E più vivo.
Published: Nov 7, 2025
Latest Revision: Nov 7, 2025
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