Il Segreto Di Argos
Un tempo c’erano una volta nei due regni quello di Ceenderlie e di Vorvex dove i cittadini amati dai loro governanti sudditi e conducevano una vita tranquilla e felice. I sudditi dei due regni erano amici e avevano stipulato un accordo di pace tra di loro e in caso di attacco straniero si sarebbero aiutati a vicenda.
Gli anni passarono e il re e la regina di Ceenderlie ebbero una figlia, Ondine, mentre nel regno di Vorvex ci fu un erede maschio, Hans. Questi lieti eventi fecero sì che le due famiglie un giorno si unissero per formare un solo regno grazie alla promessa di matrimonio che i sovrani fecero per i loro figli. Infatti i genitori decisero che al compimento dei diciotto anni Ondine e Hans sarebbero diventati marito e moglie. Hans e Ondine era due bambini molto belli, ma per Ondine c’era qualcosa che non andava! I suoi capelli col crescere diventavano sempre più rossi e ricci. Questo rappresentava un grande problema, perché in quell’epoca medievale nell’era in cui vivevano i ragazzi, cioè il medioevo, i capelli rossi erano sinonimo di stregoneria, e chi veniva considerata una strega, era condannata ad essere bruciata viva.
I genitori di Ondine furono presi da un grande sconforto e paura per la loro piccola principessa così decisero di porvi un rimedio. Con l’aiuto e il consiglio della fidata bali badante decisero di andare in cerca di una polvere magica che avrebbe fatto diventare i capelli di Ondine di un bellissimo colore biondo. Questa polvere si trovava nella cima del monte più alto del regno, nelle mani di un potente mago chiamato Argos. Arrivati in cima trovarono la grotta dove viveva il mago, con molta paura entrarono in cerca della polvere, videro un sacchetto che la conteneva e senza pensarci due volte lo afferrarono e uscirono fuori dalla grotta. Proprio lì però c’era il mago Argos con uno sguardo che metteva timore. Il re e la regina fecero qualche passo indietro spaventati dall’uomo, che chiese loro come mai erano entrati nella sua casa. Il re con coraggio spiegò il motivo per cui si trovavano lì ed il mago con una risata inquietante disse loro di portare da lui la principessa.
I sovrani non riuscivano a capire il perché di quella strana richiesta e chiesero al mago una spiegazione, ma il mago continuò a ripetere che dovevano portargliela e basta.
Il giorno dopo Ondine e i suoi genitori andarono dal mago, impauriti da ciò che li aspettava, attesero la venuta di Argos.
Egli vedendo la ragazza esclamò: bene bene, vedo che mia moglie prima di sparire per sempre dalla mia vita, ha lanciato il suo malefico incantesimo su di te cara. Purtroppo dietro questo evento c’è una brutta storia; dovete sapere che io e mia moglie nello stesso giorno della nascita di Ondine abbiamo perso nostra figlia e per noi è stata una sofferenza tremenda, tanto che mia moglie non è riuscita a superare il dolore e per vendetta ha maledetto ogni bambina nata quel giorno. Sfortunatamente per voi ma fortunatamente per tutto il regno, quel giorno c’è stata una sola nascita, quella della principessa.
Io però ho il rimedio a tutto e voglio aiutarvi. Se volete che questa maledizione si spezzi Ondine deve tagliarsi i capelli a zero e rimanere prigioniera dentro la grotta per due giorni interi.
Il re e la regina erano disposti a tutto pur di non far avere quei capelli alla figlia, quindi decisero, anche se a malincuore, di lasciarla lì per far sciogliere l’incantesimo. Ondine passò i giorni più brutti della sua vita lì, sentiva la mancanza dell’affetto di sua madre e le coccole che le faceva il papà prima di mettersi a dormire, ma la principessa era anche una bambina coraggiosa e capì che il gesto dei suoi genitori era fatto per il suo bene, per proteggerla dalle credenze popolari che l’avrebbero condotta alla morte.
Il mago Argos fu molto gentile con Ondine e le spiegò cosa le avrebbe fatto. Per prima cosa le tagliò a zero i capelli pronunciando una formula magica, poi fece dei segni sulla testa con la polvere gialla e le mise una cuffia che doveva portare per due giorni senza mai toglierla per nessun motivo al mondo. Passati i due giorni, prima che se ne andasse le fece bere una miscela strana e disse ai suoi genitori che non aveva più bisogno della polverina perché l’incantesimo era sciolto e i suoi capelli sarebbero stati di un bel colore biondo come quello delle spighe di grano.
Finalmente Ondine, il re e la regina potevano vivere felici senza paure. Gli anni passarono e Ondine divenne una bellissima ragazza e finalmente incontrò Hans un ragazzo possente, alto con occhi verdi e capelli neri e soprattutto aveva un sorriso che ti scaldava il cuore. Un anno dopo il loro incontro i ragazzi si sposarono e vissero per sempre felici e contenti.
Chiara D’Alessandro
Efrec e Arkarof
Efrec era un giovane ragazzo che viveva in uno dei tanti castelli nella regione della Castiglia, nel Nord della Spagna. Suo padre era un vassallo maggiore, molto ricco e conosciuto. Amministrava feudi molto estesi e le popolazioni gli volevano bene e lo rispettavano perché, in caso di guerra, di pericolo o di difficoltà, trovavano ospitalità e protezione presso il suo castello.
In quegli anni era in corso la lotta contro gli Arabi dell’Emirato di Cordova , a seguito dell’espansione islamica nella penisola iberica.
Efrec, il figlio maschio minore, era un cadetto:stava per diventare un cavaliere senza macchia e senza paura ed era quasi pronto per la cerimonia dell’investitura. Era un ragazzo molto gentile e disponibile, amato da tutti. Aveva solo un nemico: suo fratello Arkarof. Questi era il primogenito e, perciò, avrebbe ereditato tutto il patrimonio. Era avido, meschino e malvagio. Aveva una pelle coriacea, un viso arcigno e degli occhi cruenti, pieni di cattiveria, tutto l’opposto di Efrec.
La loro rivalità era dovuta al fatto che entrambi volevano prendere in sposa la bella Penelope, una giovane fanciulla che viveva in un altro castello poco lontano dal loro, anche lei figlia di un importante feudatario. Efrec l’amava veramente, mentre Arkarof era interessato solo alla sua ricchezza.
Dopo molti litigi e discussioni, i fratelli lasciarono la scelta alla fanciulla e si recarono presso il suo castello , dove Penelope li aspettava, al di fuori dell’imponente cinta di mura esterne, con il ponte levatoio già abbassato.
Lei amava Efrec, ma sapeva che doveva scegliere colui che sarebbe stato maggiormente in grado di proteggerla. Perciò disse loro : ‘’Sceglierò chi di voi due è più forte nel combattimento. Vi sfiderete in un duello, senza l’uso dei cavalli, e colui che ucciderà l’altro, diventerà mio sposo. E che vinca il migliore’’.
Efrec indossò l’armatura, una tunica a maglie di ferro lunga fino a metà coscia e con le maniche, e l’elmo con il cimiero. Sguainò la spada dal fodero e trafisse l’avversario alla gamba. Arkarof cadde a terra dal dolore, quasi privo di forze, ma dopo un po’ riuscì ad alzarsi e a continuare il combattimento, anche se molto debole. Efrec, ormai, sapeva che sarebbe riuscito a vincere . Così corse verso il fratello , che a stento riusciva a stare in piedi e che cercava, invano, di tamponare la ferita con la mano e lo colpì, trapassandogli la gola, uccidendolo.
Tutti applaudirono allegri ma la persona più felice era Penelope, che finalmente riuscì a sposare l’uomo che amava.
Le nozze si celebrarono il giorno stesso, nel castello della sposa e il banchetto si tenne nel grande salone, dove, coma si usava fare, si festeggiò con abbondanza di carne degli animali che suo padre aveva ucciso a caccia.
La festa fu allietata dalla musica e dal canto dei menestrelli e dei cantastorie.
Fu un matrimonio indimenticabile!
Marta Marziale
Nicolas e Pacasios
In un piccolo paese della Grecìa vivevano due ragazzi di nome Nicolas e Pacasios, volevano diventare dei lottatori e ogni giorno si allenavano. In uno di quei giorni di allenamento passò un altro ragazzo, di nome Narkissos che aveva un piano: quello di riprendersi il suo gioiello. Narkissos odiava quei ragazzi perché un giorno, quando erano a scuola, Nicolas e Pacasios gli fecero un brutto scherzo. I tre erano amici ma litigarono per una cosa preziosa, piena di significato divino e Narkissos si sentì ferito nell’onore! Gli sottrassero il gioiello protettore, tramandato da generazione in generazione, sul quale si narra una leggenda: fu donato in principio ad un suo antenato guerriero dal Dio protettore dei guerrieri,perchè la sua famiglia è stata sempre composta da valorosi guerrieri. Semmai quel gioiello protettore fosse capitato in mani sbagliate o si fosse rotto si narra che gli Dei avrebbero scatenato la propria ira su di lui e sulla propria famiglia. Lo portava sempre con sè e fino a quando i due mascalzoni non se ne accorsero e decisero di sottrarre il gioiello dalla tasca della sua tunica, distraendolo dalla situazione, e scappare via. Da allora Narkissos passò il tempo a studiare un piano per ingannare i due e riprendersi quello che gli apparteneva per salvare sé e la sua famiglia dall’ira degli Dei. Decise di non frequentare più la scuola di combattimento per un po di tempo, si allenò però duramente con suo cugino Alexos, valoroso combattente, che gli insegnò oltre che a combattere a portare pazienza e studiare nei minimi dettagli il piano per la sua vendetta. I due ragazzini intanto continuavano a prepararsi, credendo che Narkissos, ormai, non fosse più in grado di combattere.
Passarono giorni e per Narkissos uno di questi fu molto speciale, tornava dal mercato dove era andato per comprare i viveri necessari alla famiglia, era il suo compleanno e, al suo ritorno suo padre Zenas, aveva forgiato per lui una bellissima spada come quelle che forgiava per i più valorosi combattenti: lo xiphos! Zenas gli fece proprio quel regalo per coronare il sogno di suo figlio e perchè credeva davvero che Narkissos era degno di poterla utilizzare. Per il ragazzo fu un momento unico, da non poter mai dimenticare!!!
Narkissos ora aveva tutto quello di cui aveva bisogno per portare a termine la sua rivalsa, quindi uscì e passò proprio dove sapeva di poter incontrare Nicolas e Pacacios. Erano proprio dove lui aveva immaginato di trovarli, i due iniziarono a prenderlo in giro vista la sua assenza a scuola di combattimento ma Narkissos con sguardo fiero gli disse: “vi sfido” – i due ridacchiarono – continuò dicendo: “domani, nella piazza del mercato alle 15:00 davanti a tutti i civili! Chi vince può ritenersi proprietario del gioiello degli Dei”.
Girò le spalle e se ne andò senza aggiungere una parola.
Arrivò così il giorno seguente, la piazza era gremita di gente pronta a innalzare l’uno o gli altri, la tensione era alta.
Baciato da un raggio di sole compare Narkissos, indossava un’ armatura color oro che al sole brillava di un giallo intenso e nella mano destra impugnava la sua spada. Nicolas e Pacacios, che fino al giorno prima erano sicuri di sconfiggere il ragazzo con molta semplicità, ora non ne erano più certi.
Comincia il combattimento e le persone incitano i guerrieri, lo scontro è duro, crudo, e Narkissos è accecato dalla rabbia. Schiva colpi a destra e a manca, un pugno di Pacacios lo stende a terra ma si rialza come se non fosse mai caduto. Quel giorno Narkissos aveva più forza di quanta non ne avesse mai avuta, si alza, gira su se stesso e con un salto e una sferzata di spada ferisce tutti e due. Narkissos è il vincitore, non solo di quella piccola battaglia ma anche dell’onore. Da allora fu considerato da tutti un valoroso combattente e il gioiello degli Dei non lo porta più con sè ma è custodito in un posto che solo la sua famiglia conosce!
Lorenzo Mizzoni
Lucrezia Romana
Salve,mi chiamo Lucrezia Romana,sono una ragazza di dodici anni appartenente ad una ricca famiglia patrizia.
Vivo a Ostia in una grande e bellissima casa, chiamata Domus.
Essa è strutturata su un piano e si estende in larghezza occupando un intero quartiere. Dall’entrata si passa all’atrium che è di forma quadrata al centro del quale c’è una vasca per la raccolta dell’acqua piovana proveniente dall’apertura apposita del tetto. Attorno all’atrio ci sono alcune stanze adibite a vari usi,come la cucina dove su un bancone si preparano le pietanze,che vengono cucinate in appositi piccoli forni o sopra a dei bracieri.
In fondo all’atrio si trova il tablium, ossia una stanza dove si ricevono gli ospiti, la quale si affaccia sul peristilium, cioè un giardino circondato da un colonnato sotto il quale ci sono le porte che danno alle camere da letto , ed al triclinium ossia la sala da pranzo. In quest’ ultima sono presenti dei letti sui quali si mangia distesi afferrando il cibo che è posato sui piatti e su un tavolo centrale.
La mia Domus ha anche piccole fontane e statue al centro del giardino.
La mattina sono sempre di corsa, ma non trascuro il mio aspetto. La mia tunica preferita è di color celestino, sopra ad essa porto una toga sulla quale pongo una spilla d’oro con un ciondolo e dei sandali di cuoio chiamati calcei.
Mi piace anche truccarmi,ma lo devo fare di nascosto da mia mamma perché mi dice che sono ancora piccola; uso una cipria ottenuta da polvere di gesso e piombo molto leggera.
Il nostro anno scolastico è iniziato a fine marzo ; le lezioni iniziano all’alba con una breve interruzione verso mezzogiorno, quando torno a casa per il pranzo.
Oggi devo studiare la geometria;uso una tavola di legno sulla quale c’è uno strato di cera; sopra scrivo le lettere dell alfabeto con uno stilo appuntito mentre la parte piatta mi serve per cancellare. Oggi stiamo studiando a memoria l ‘Odissea. Il maestro ci ha spiegato che quest’opera è importante poiché esalta importanti valori come la tenacia,la fedeltà e l’amore familiare.
Nel pomeriggio vado alle terme con mia mamma perché lei sà che mi piace molto nuotare e lì ci sono molte piscine. Raramente accompagno mia mamma al Circo Massimo a vedere lo spettacolo delle bighe trainate dai cavalli: ma quanto mi annoio!!!!
Nel tardo pomeriggio torniamo a casa per cena : ci sdraiamo sui lettini posti intorno alla tavola, ci sono parecchie portate ,soprattutto tanti dolci. Musicisti e danzatori suonano e danzano per allietare la serata.
Nella tarda serata anche se mi è proibito uscire per una mia sicurezza, m’incontro con Lucius un bambino di una famiglia plebea. Purtroppo le nostre condizioni sociali non ci permettono di giocare alla luce del sole; già una volta mio padre sorprendendoci incarico i militari di multare il suo papà trattenendogli una parte del suo stipendio d’artigiano. Sò già che la nostra amicizia non potrà mai essere vissuta liberamente e aspetto con ansia il giorno che cambieranno le regole a Roma e chissà!!!!
Furtivamente mi ritiro nella mia stanza; in un attimo mi addormento e sogno Lucius che camminiamo nelle vie di Roma senza distinzione di ceti sociali.
Lucrezia Oliva
La fanciulla volsca e il giovane romano
Era il 400 a.C. un gruppo di persone, conosciute come Volsci , vivevano lungo la dorsale Appenninica. La giovane Camilla trascorreva le sue giornate a giocare con le sue amiche nei giardini del palazzo dove abitava con il padre, comandante dell’esercito Volsco, la madre e il fratello minore. Il papà di Camilla era sempre fuori, in quegli anni l’esercito romano aveva deciso che voleva conquistare le loro terre per poter, da lì, spostarsi oltre la dorsale Appenninica. Il sogno dei Romani era quello di conquistare il sud della penisola ma i Volsci, gli impedivano il passaggio.
Come tutte le ragazze di 15 anni anche Camilla sognava l’amore della sua vita. Un giorno il padre la portò con sése per un breve viaggio. Arrivarono in una città conosciuta per le proprietà delle sue acque.
Questa città si chiamava Tivoli.
A Tivoli, durante la stagione calda, si recavano molti Romani in cerca di riposo.
Il giovane Claudio, tornato da una missione di guerra, aveva deciso di passare qualche giorno a Tivoli. Lì i due giovani si conobbero. Lui era bello, forte e valoroso. Camilla capì subito che aveva trovato l’amore della sua vita.
Purtroppo i loro sogni di amore svanirono subito, il padre di Camilla scoprì l’interesse reciproco dei due giovani. Il loro, spiegò alla figlia durante il viaggio di ritorno a Sora, era un amore impossibile. Claudio era loro nemico.
I giovani continuarono a sentirsi per corrispondenza. Gli anni passavano . L’esercito romano avanzava sempre di più e le guerre contro i Volsci diventavano sempre più dure. Del resto tutti sapevano che era un popolo di guerrieri troppo forte.
Ormai Camilla e Claudio, dopo quei pochi giorni trascorsi insieme, non si erano più visti finché un giorno Claudio scrisse una lettera alla sua amata informandola che il suo accampamento distava a pochi km da Sora e che, se lei si fosse fatta trovare lungo la strada sarebbe andato a trovarla. Claudio però non sapeva che il Console Marco Tullio Camillo, dopo aver saputo della loro storia, aveva messo un suo uomo fidato a controllare il ragazzo.
Camilla, seguendo le istruzioni di Claudio, si nascose dietro una siepe lungo il sentiero. Appena Claudio arrivò i due si promisero amore eterno. Camilla, portò Claudio a casa, perchè decisi ad ufficializzare il loro fidanzamento. I ragazzi sapevano che sarebbe stato difficile per loro ma, piuttosto sarebbero morti. Per arrivare a casa, che si trovava al centro di Sora, Camilla prese una stradina nascosta che nessuno conosceva. Arrivati a casa la giovane comunicò ai genitori la loro decisione. Il padre andò su tutte le furie, chiese alla figlia come aveva fatto a far entrare Claudio a Sora. Non ci fu il tempo di una risposta. L’esercito romano che aveva seguito il giovane era già entrato nella cittadina Volsca. Fu il combattimento più sanguinoso. i romani riuscirono finalmente a conquistare, dopo due secoli di battaglie, la città Volsca che avrebbe permesso loro di oltrepassare gli Appennini. Claudio e Camilla trovarono la morte la notte stessa. Chi arrivò dopo disse che erano abbracciati sul letto di lei, dove speravano di trovare rifugio.
Sofia Fatima Panacci
Anna Cavour
Nella metà dell’ 800, una ragazza di nome Anna Cavour abitava in provincia di Torino, in una villa grandissima con bei mobili, soffitti alti e suntuosi e pieni di affreschi e con la servitù a cui Anna era molto affezionata. Apparteneva ad una famiglia aristocratica, il padre si chiamava Enrico ed era un famoso avvocato della zona, la madre si chiamava Maria, nobildonna dalla forte personalità dedita alla famiglia e ad aiutare le persone bisognose e poi c’era la sorellina di nome Olga.
Anna era alta, esile, con capelli biondi e mossi, e li teneva raccolti in modo che le contornavano il roseo volto. Aveva un’intelligenza vivace e ricca d’ immaginazione. Frequentava la Moncenisio in via Cittadella, una scuola aperta a tutti i bambini sia ricchi che poveri. La scuola era diventata obbligatoria per tutti: ai ricchi serviva ad avere una preparazione per proseguire gli studi al collegio, mentre i poveri si preparavano per il lavoro. La scuola elementare era aperta a tutti perché tutti dovevano acquisire l’ alfabetizzazione.
Nella classe di Anna c’era una ragazza molto vivace e ribelle del ceto povero, sgarbata e con atteggiamento sostenuto, il suo nome era Margherita, litigava continuamente con tutti ed in particolare con Anna, la prendeva sempre in giro, le diceva che era ricca, fanatica con i suoi abiti raffinati, non aveva amici e non sapeva neanche andare in giro da sola perché c’era sempre una carrozza ad aspettarla.
Un giorno Anna entrò in classe e si mise seduta, quando il maestro la chiamò per andare alla lavagna si alzò e sentì il rumore di uno squarcio, il suo bel vestito era rimasto attaccato sulla sedia perché Margherita le aveva messo della colla. Anna scoppiò a piangere ed avvilita chiese di poter andare a parlare con il Direttore, ma prima di uscire dall’aula si girò verso Margherita e con sguardo truce le disse: “Ora te la faccio pagare”. Appena rientrò in aula il Direttore chiamò Margherita e la sospese per 3 giorni dalla scuola.
Quel giorno Anna tornò a casa distrutta, nonostante quello che le aveva combinato Margherita le dispiaceva per la sospensione, allora ne parlò con la madre che prima la rimproverò e dialogando le fece capire di essere stata brusca ed impulsiva; le promise però che sarebbe andata a parlare con il Direttore per trovare una soluzione meno drastica. L’ indomani l’ accompagnò a scuola, si recò dal Direttore e insieme trovarono la soluzione al problema: Margherita sarebbe stata riammessa e si sarebbe dovuta impegnare in azioni buone insieme ad Anna e così fu. Ogni giorno dopo la scuola la madre di Anna le veniva a prendere e le portava in alcuni centri dove c’erano persone povere e malate che avevano bisogno di una parola o un’azione buona.
Con il passare dei giorni Anna e Margherita diventarono ottime amiche e la sua gelosia nei confronti di Anna divenne l’insegnamento più importante che ci fu in quella classe quell’anno: non ci sono differenze fra ricco e povero, se lo si vuole .
Giulia Rea
La vittoria di Tiberio e Marco contro la prepotenza di Plinio Catone
Intorno al 500 a.c., in un villaggio che sorgeva sulle colline circostanti il fiume Tevere, viveva una famiglia di contadini il cui capo famiglia si dedicava principalmente alla coltivazione del grano ed allevava alcuni capi di bestiame.
Questa famiglia era composta da 3 figli, due bambine ed un ragazzo ormai adolescente di nome Tiberio. Il padre Marco era sempre impegnato nel suo lavoro, e Tiberio, essendo l’unico maschio lo aiutava.
Un giorno Marco mentre si accingeva a mietere il grano, si ferì e le sue urla di dolore arrivarono all’orecchio del figlio Tiberio che lo soccorse. Per diversi giorni il padre non potè recarsi a lavorare nei campi e quindi toccò a Tiberio.
Sia il loro bestiame che la loro coltivazione di frumento erano molto invidiate, tanto che approfittando dell’infortunio di Marco, il patrizio Plinio Catone chiese al giovane Tiberio di ottenere tutto il raccolto in cambio di alcuni metri di stoffa da utilizzare come abiti. Nell’epoca romana i tessuti usati per realizzare le vesti erano la lana, la canapa,il lino e si presentavano abbastanza duri e poco pratici. Catone propose, quindi, nuovi tessuti misti che proprio per la loro composizione erano più facili da lavorare.
Tiberio rifiutò l’offerta di Catone perché non era paragonabile alla resa che il grano dava nella vendita, era un elemento fondamentale dell’alimentazione dell’epoca romana ed era usato principalmente per produrre il pane. Tiberio poi aveva sua madre Dora che era un’abile sarta e sapeva lavorare anche le stoffe più difficili, quindi rifiutò fermamente l’offerta. Questa scelta fu condivisa con orgoglio anche dal padre Marco.
Al suo rifiuto però, Plinio Catone offeso per l’atteggiamento dell’adolescente, tornò alcuni giorni dopo, quando ormai il sole era calato, accompagnato da due briganti che portavano delle torce, rivestite di grasso e pece per renderli maggiormente infiammabili e duraturi a cui diedero fuoco e minacciarono di incendiare l’intera distesa di grano ormai pronto per la mietitura.
Nel vedere la luce delle torce e spaventato dal danno che potevano fare, Marco suggerì a Tiberio di azionare il mulino ad acqua che avevano realizzato da poco, usato per macinare il loro grano e tramite una manovella si poteva direzionare il getto d’acqua nei campi per l’irrigazione. Il mulino era stato fatto con grande impegno ed estrema abilità, tipica dei romani che ben sapevano utilizzare le risorse idriche del territorio.
L’acqua, che di notte era poco utilizzata aveva una notevole portata e per questo arrivò con particolare violenza sui briganti che intimoriti da quel getto impetuoso, videro spegnere le loro torce restando completamente al buio.
Plinio Catone ed i briganti, soli e senza luce, storditi da quel getto di acqua, scapparono, cadendo più volte rovinosamente a terra perché inciampavano con i lacci di cuoio delle loro calzature, e nella loro corsa erano anche inseguiti dai cani della famiglia di Tiberio.
Tiberio ed il padre Marco, fieri di aver scacciato i briganti, risero nel vederli in fuga ed orgogliosi della loro vittoria contro la prepotenza di Plinio Catone, brindarono col loro buon vino.
Alessandro Sforza
Re Alessandro
Nel 700 d.C. un re di nome Alessandro, che governava su una parte della Spagna msubì un’ in una imboscata da parte degli Arabi alle porte di Valencia. ? L’imboscata consisteva nel fingere di dare al re spagnolo dei doni in “ segno di pace” per poi attaccare le sue retroguardie mentre lui dormiva, e così fu. Il giorno dopo, inoltre, Alessandro fu attaccato da una flotta di 10 navi sempre per opera degli Arabi ma, grazie al sua formidabile esercito, non ci furono morti ma solo feriti. A distanza di qualche settimana avvenne la battaglia finale. Gli Arabi in quest’ultima però avevano un asso nella manica: le balestre giganti. Le balestre non erano state ancora inventate e quindi erano sconosciute all’esercito nemico, l’unico punto debole della balestra è che si ricaricava lentamente, soprattutto quella gigante, che aveva frecce talmente grandi da distruggere in un solo colpo le mura nemiche. Purtroppo Alessandro non potè fare nulla per proteggere il suo esercito da un’arma così potente, quindi siccome era già dimezzato dai feriti della battaglia precedente, decise di chiamare i rinforzi, tramite un messaggio trasportato da un piccione. Così dopo un giorno i rinforzi arrivarono, ed erano formati da: cavalieri, arcieri e combattenti di ogni genere vari tipi che ribaltarono la situazione portando così la vittoria dalla parte di Alessandro.
Mattia Zeppieri
Dornie , 23 agosto 1297 Storia di pellegrinaggio
Era un giorno d’estate come molti. Il sole splendeva alto nel cielo, ed i suoi raggi di prima mattina, seppur fievoli, brillavano sull’acqua cristallina del lago Loch Long. All’orizzonte si innalzavano i Monti Grampiani, dai versanti ricoperti di fitti e verdi boschi. Le campane del recente castello di Eilean Donan, emisero alcuni rintocchi, che svegliarono tutto il piccolo e calmo villaggio di Dornie. In una delle diverse e molteplici fattorie, situate sulle strette pianure che si estendevano sulla riva del lago, l’intera famigliola che l’abitava si svegliò con rapidità. Si trattava di due contadini semplici ed umili ,ma con un cuore d’oro, che vivevano insieme ai loro genitori e i due figli: Giovanna ed Ermengardo. Il più piccolo era Ermengardo, che da poco aveva compiuto il suo dodicesimo compleanno , raggiungendo un’età pressoché matura. Appena sveglio, il ragazzino si fece tre volte il segno della croce, come era solito fare ogni mattina, e si soffermò a pregare , chiedendo al suo angelo custode di poter passare una bella giornata. In men che non si dica saltò fuori dal suo letto in legno ricoperto di fieno , tovaglie di lana e cuscini di piume, e si vestì completamente. Si infilò prima la camicia dalle maniche lunghe, poi le brache di stoffa e le calzette , ed infine la sua veste di foggia germanica lunga fino al ginocchio , legando accuratamente i lacci in pelle. Scese lentamente le scale in legno, insieme alla sorella Giovanna. Poi Ermengardo si recò nel bagno con loggette sporgenti ed un sedile che si apriva su un canale, e si lavò per bene il viso e le mani. Uscì dalla stanza, ed eccolo in cucina, davanti al focolare ormai spento. Poi si sistemò sul tavolo e si mise ad osservare la madia in cui si trovavano vari tipi di pentole ed utensili. In men che non si dica tutta la famiglia si era riunita per la colazione: nonna Morey, nonno Robert, padre Enrico e madre Teodolinda. Consumarono segale, orzo, grano saraceno, miglio e avena. Terminata la colazione , Ermengardo andò nel cortile del retro, attraversò gli orti e si recò nelle stalle per dare da mangiare ai buoi, alle bufale ed alle mucche. Sua sorella Giovanna, invece raccolse le uova dal pollaio. Dopo aver svolto alcune delle numerose faccende mattutine, l’intera famiglia s’incamminò verso il castello per assistere alla Santa Messa all’interno della cappella. I monti scorrevano davanti agli occhi giovani ed inesperti del dodicenne, che rimaneva incantato nell’osservare le isolette d’erba del Loch Long. Ben presto si ritrovò al Castello di Eilean Donan, che si innalzava su uno sperone di terra, collegato da un tombolo alla terra ferma. La Messa passò veloce. Fino ad allora Ermengardo non aveva vissuto nessuna particolare esperienza: si trattava della solita quotidianità. A celebrare la Messa c’era il vescovo-conte , signore del feudo, in buoni rapporti con i sovrani di Scozia. Terminate le attività religiose, tutti tornarono al lavoro, le donne si dedicavano alla filatura ed alla tessitura della seta, gli uomini invece avrebbero dovuto occuparsi dell’agricoltura e dell’allevamento. Ermengardo cominciò ad arare i poderi posti sul fianco della collina, davanti al lago. L’aratro in legno con lama di ferro, solcava la terra mentre veniva trainato dal bue. Ma poco dopo l’inizio del lavoro ,Ermengardo fu chiamato dal padre. Il cuore gli cominciò a battere all’impazzata, il sangue gli si gelò nelle vene ed il ragazzo cominciò a tremare. Il padre Enrico era sempre stato una figura autoritaria e severa sotto ogni punto di vista. Impaurito, Ermengardo si avviò dal padre, lo trovo però sorridente, orgoglioso e compiaciuto. Enrico disse: – Ragazzo mio, ormai hai raggiunto i dodici anni d’età, è ora che tu riesca a comprendere il tuo spirito interiore. Per te è ormai ora di unirti con il sacrificio alla comunità cristiana: andremo in pellegrinaggio a Santiago di Compostela , nella lontana , incantevole, sacra selvaggia e meravigliosa Galizia.
Ermengardo era particolarmente scosso, non sapeva cosa rispondere, tuttavia si fece coraggio e rispose: – Padre grazie mille è un onore per me…
Ma Enrico lo fermò e continuò: – Devi sapere, caro, che fin dall’anno mille i miei antenati hanno cominciato a compiere pellegrinaggi. E’ un modo per purificarci dai nostri peccati, ringraziando Dio , che ci ha risparmiato al giudizio universale del I millennio. Adesso , figliolo prendi questa conchiglia, simbolo dei pellegrini che si recano alla cripta di San Giacomo Maggiore. Inoltre, mi sento in dovere di ringraziare Dio per la pace che ci sta donando : William Wallace e Andrew De Moray hanno sostituito brillantemente il re Giovanni. Adesso però vatti a preparare, tra poco partiremo. Tua madre sta già preparando le vettovaglie per il lungo viaggio.
Ermengardo, eccitato ed incredulo corse dalla madre, che gli porse sacchi di grano, miglio, orzo per sopravvivere durante il pellegrinaggio. Poi , dopo aver salutato tutti con affettuosità, si recò dal padre e subito partirono a piedi. Il ragazzino era sconvolto, ma allo stesso tempo felice, ma non sapeva come comportarsi , perciò domandò ad Enrico:- Padre, ma come faremo a sopravvivere: il viaggio è lungo!
L’altro, con calma, disse: – Mio caro, queste riserve ci dovranno bastare solo fino al nostro arrivo nel regno normanno d’Inghilterra, lì hanno sede ostelli e locande per l’accoglienza dei pellegrini costruite dall’Ordine di Santiago. Adesso , però, mi piacerebbe spiegarti ciò che incontreremo durante il viaggio. Lungo i colli scozzesi incontreremo i bardi , che ci delizieranno con la loro musica e le loro poesie. Ovviamente ci fermeremo a visitare la chiesa di St. Giles a Edimburgo e, una volta arrivati in Francia anche sul Monte St.Michel. Pensa che in quest’ultimo è apparso l’arcangelo Michele.
Ermengardo si sentì più calmo e felice, e rimase incantato nell’osservare la valle del Loch Long rimpicciolirsi e lasciare spazio ai monti , con sempre meno altopiani.
Glasgow, 29 agosto 1297
Dopo aver visto ed attraversato incantevoli paesaggi, Ermengardo giunse a Glasgow, una delle città più ricche della Scozia, insieme al padre. La città era marmorea, stracolma di guglie, e su una via, si innalzavano gli edifici più lussuosi del burgh. Ermengardo si sentì affascinato da tutto ciò che incontrava, il cuore che batteva forte dalla gioia. I due alloggiarono in una locanda barattando uno dei loro averi.Entrati nella stanza , il padre Enrico si rivolse ad Ermengardo dicendogli:- Figliolo, pensa che della ricchezza di questo burgh, lì nel villaggio di Dornie, ne avevo sentito parlare solo dai castellani , e mai mi sarei immaginato di poter attraversare delle vie con palazzi dalla fine bellezza. Quante esperienze che abbiamo vissuto , e neanche siamo a metà del viaggio, ci aspettano lunghe avventure. Adesso però è ora di riposarsi , altrimenti non potremo affrontare il cammino di domani.
Il giorno seguente i due si svegliarono di buon umore, e pronti a ripartire, si avviarono lungo le strade della città. In alcune si potevano incontrare dei bardi, che cantavano , accompagnandosi anche con l’arpa. Ben presto si ritrovarono nelle campagne sperdute di Glasgow.
Edimburgo, 31 agosto 1297
Se Glasgow era meravigliosa, Edimburgo era fantastica. Dopo aver aver attraversato piane dalle lievi ondulazioni, era una grande soddisfazione ritrovarsi in mezzo a grandi campanili, ed imponenti istituti ecclesiastici. Ermengardo insieme al padre, visitò la famosissima e rinomata chiesa di St. Gilles. Ma, la cosa che più gli piacque, fu il castello della città adagiato su uno sperone di roccia. Le mura si confondevano con la pietra, e tutt’intorno un sottile strato di erba lo circondava. Per il ragazzino fu un vero e proprio spettacolo.
Giunti alla locanda dove i due avrebbero trascorso la notte, il padre Enrico ricevette una brutta notizia: L’Inghilterra e la Scozia si trovavano nel bel mezzo di una guerra civile. Enrico però era spaventato, aveva paura di incontrare le truppe inglesi se si fosse mosso verso sud, perciò, per temporeggiare, convinse il figlio a dirigersi verso nord, dopo avergli spiegato ciò che stava accadendo. Ermengardo però, rispose:- Padre, non ho intenzione di disobbedire ,perciò farò quello che consideri giusto, ma se mai mi troverò in una battiglia, lotterò, come un vero e proprio cavaliere, per far vincere la Scozia.
Detto ciò, i due ripresero il cammino e lasciarono Edimburgo.
Stirling, 2 settembre 1297
Stirling era un villaggio calmo, il cui centro aveva sede intorno all’ampio e grande castello , situato su uno spuntone di roccia , circondato tutt’intorno da una piccola foresta. Enrico aveva detto al figlio, che sarebbero rimasti lì per circa dieci giorni, e che avrebbero dovuto trovare lavoro come braccianti agricoli , altrimenti tutti i loro averi sarebbero terminati. Stirling inoltre, era un punto strategico se i due avessero continuato il viaggio, infatti si trovava non troppo lontana da Edimburgo.
Padre e figlio, girarono tutte le campagne in cerca di una gleba dove poter essere assunti, alla fine trovarono accoglienza presso una fattoria nelle vicinanze del fiume Forth. Il latifondista, fu molto felice nel sapere che i due avevano avuto già un’esperienza nel campo agricolo, perciò fu lieto di assumerli.
E così tra campi, orti, stalle, fienili e pollai, i giorni volarono.
Stirling, 11 settembre 1297
Quel giorno, all’insaputa di tutto il villaggio, l’esercito scozzese si schierò sull’unico ponte che attraversava il fiume Forth. Ben presto questo fatto divenne noto anche ad Enrico ed Ermengardo. Il padre del ragazzo, allarmato, decise di scappare , perché ciò che stava accadendo non faceva dedurre nulla di buono, ma si accorse , che s e avesse voluto scampare al pericolo, avrebbe dovuto per forza attraversare il ponte del fiume.
Ermengardo ed Enrico, però, avevano già lasciato la fattoria, e si trovavano in mezzo ai campi di Stirling. Da lì si poteva usufruire di un’ottima visuale dell’esercito scozzese.
I soldati erano uomini di tutte le età, in prima fila si trovavano cavalieri pesanti, mentre un po’ più indietro si allungavano file di abili arcieri. A capo di tutti però, c’erano due uomini, molto probabilmente si trattava di William Wallace e di Andrew De Moray.
Osservare tutto ciò , faceva rabbrividire Ermengardo, che però allo stesso tempo, era pervaso da una forte adrenalina che sembrava far dissolvere ogni sua paura.
Dopo circa tre ore, all’orizzonte si riuscì ad intravedere l’esercito inglese.
Ecco che i cavalieri si misero a lottare duramente contro i loro avversari, i fanti contro altri fanti e gli arcieri scagliavano frecce.
Alcuni cavalieri scozzesi cominciarono a morire, allora Ermengardo non seppe resistere. Si sentì coraggioso, pieno di forza e volontà. Saltò qua e là tra i soldati, e riuscì ad accaparrarsi la fiducia di un cavallo, che lo fece salire su di esso. Dominare un cavallo, ad Ermengardo pareva simile a governare un bue. Da vero e proprio cavaliere, il ragazzo seppur mingherlino , si lanciò sui fanti inglesi che morirono, ma morì anche lui. Grazie a questo gesto, gli scozzesi riuscirono a vincere, ma , in mezzo ai campi, ecco il corpo inanime di Ermengardo, che veniva baciato dai fievoli raggi di sole d’inizio autunno.
Racconto storico
Dioskoros
“Non verrò ricordato nella storia come il mitico Achille, ma nella mia memoria di certo rimarrà vivo il ricordo di aver combattuto al fianco del più grande eroe greco”.
È l’anno 1250 a.c., vivo in Tessaglia a Ftia, e ho ricevuto un’educazione spartana e militaresca superando prove severissime e spesso crudeli. Ho frequentato come i più grandi la scuola del Centauro Chirone.
Mi chiamo Dioskoros e sono un combattente greco dell’esercito dei mirmidoni, e affianco nelle mie battaglie il più valoroso dei guerrieri della Grecia: Achille.
Forte e coraggioso ci guida, e anche essendo solo cinquanta, valiamo più dei cinquantamila uomini di Agamennone.
Sono stato scelto in questo grande giorno tra i migliori guerrieri mirmidoni, per combattere con il Pelide Achille nella guerra di Troia. Con noi partirà un grande esercito di guerrieri con principi e re greci, per riprendere Elena moglie di Menelao, fuggita con il principe troiano Paride dalla sua patria, e per estendere il dominio greco su tutto il mare Egeo, per volere di Agamennone.
Siamo pronti per partire, ho indossato il mio kronos (elmo), la mia thorax (armatura), i miei schinieri, con me porto anche la mia fidata xiphos (spada corta in ferro) e il mio oplon (scudo rotondo) compagno fedele delle mie guerre.
Le nostre triremi sono pronte a salpare con rotta verso Troia; il mare Egeo è calmo e azzurro e gli dèi sono con noi, Poseidone ci fa navigare veloci sulle onde del grande mare, le spiagge sono all’orizzonte e si avvicinano. Le nostre navi finalmente toccano terra, e i loro rostri si conficcano nella sabbia rovente.
Rapidi scendiamo dalle navi e assaltiamo con feroce abilità guerriera i Troiani. Lo scontro è atroce e sanguinoso, combatto con il fuoco che mi scorre tra le vene, mi volto, e la spada del principe troiano Ettore sta per trafiggermi, indietreggio con passo svelto e con furore inizio a colpirlo, e lo affronto a più riprese, arrivano in suo aiuto altri troiani, inizio a sferzare con una strabiliante forza fisica colpi di spada e con la mia lancia ne uccido molti. Al loro ritiro nella città, ormai sfinito, insieme ai miei compagni, torno nell’accampamento, dove festeggiamo intorno a grandi fuochi, con canti e boccali di vino, la prima battaglia vinta.
Sono giorni intensi con battaglie ripetute, Achille uccide il grande eroe troiano Ettore e il loro esercito è ormai allo sbaraglio. La città è ormai allo stremo delle sue forze, e Agamennone affidandosi all’ingegno del grande eroe Ulisse, pensa all’ultimo attacco per distruggere completamente la città, e raderla al suolo.
La mia battaglia è ormai finita. Achille ci ordina di tornare a casa dalle nostre famiglie e dai nostri figli, e l’ultima cosa che vedo imponente alzarsi sulla grande spiaggia è la più grande invenzione di tutti i tempi, “il Cavallo di Troia “, che spalancherà le porte della città al dominio dei greci.
Andrea Palombo
Anno: 1494
L’ amica di Leonardo Da Vinci.
Mi chiamo Lisa e nel 1464 avevo 12 anni e vivevo a Vinci. Tutto è iniziato quando ho conosciuto Leonardo, me lo ricordo come se fosse ancora ieri: l’ho conosciuto un giorno mentre ero con altre mie amiche nella piazza centrale. Mentre giocavo lui mi fece un meraviglioso ritratto e me lo regalò, così cominciò la nostra amicizia. Un giorno Leonardo decise di andare a Firenze a perfezionare la sua pittura e io e Lolo, il nostro migliore amico, lo accompagnammo. Arrivati entrammo in una piccola bottega dove insegnava un maestro eccezionale, che accettava solo gli allievi più bravi. Il maestro si chiamava Andrea Verrocchio… e credeteci ,Leonardo entrò a far parte della bottega! A quel tempo io avevo un lavoro: curare i cavalli della famiglia Medici, famiglia più ricca di tutta Firenze. Mentre Lolo rimaneva nella bottega con Leonardo, io feci amicizia con la signorina Bianca De Medici. La presentai anche a Lolo e a Leonardo e diventammo tutti amici. Un giorno si venne a sapere che la famiglia Medici era in pericolo, perché nel castello era arrivata una lettera anonima, in cui si minacciava il principe che, se non avesse liberato dal carcere un ladro che aveva fatto arrestare, la signorina Bianca rischiava di morire. Allora il padre di Bianca ci disse di portarla lontano. Decidemmo di condurla in una grotta vicino il lago. Nel frattempo Leonardo inventò un deltaplano che permetteva di volare. Leonardo stesso lo utilizzò e fece una perlustrazione su Firenze. Così scoprì che Alessandro Di Caprio, ex signore di Firenze, era ancora in città e che era lui l’autore della lettera anonima, perché il ladro, che il principe aveva fatto arrestare, era un suo fedele servitore. Di Caprio, quando era stato signore di Firenze aveva fatto uccidere tanti nobili, perché voleva diventare unico principe . I nobili ed il popolo si erano ribellati a questo tiranno e lo avevano imprigionato nelle segrete della città. Evidentemente, però, lui era riuscito a fuggire. Con l’aiuto di Leonardo i soldati riuscirono a catturare Di Caprio e stavolta lo portarono nelle segrete di Milano, da cui non gli fu più possibile uscire.
Così riprendemmo la nostra vita normale e Leonardo continuò a fare esperimenti di ogni genere… e il povero Lolo era sempre costretto a fare da cavia! Se ci penso, ancora mi fa tanto ridere. Leonardo era un ragazzo normale come tutti noi, semplicemente si impegnava e se doveva far una cosa la portava a termine. Un ragazzo che non dimenticherò mai, perché tutto quello che diceva me lo trasmetteva in una maniera che nessuno ha mai fatto.
C’è una frase di Leonardo che ricorderò per sempre: “Chi ha provato il volo camminerà guardando il cielo, perché là è stato e là vuole tornare.”
Matilde Guglietti
Published: May 8, 2020
Latest Revision: May 8, 2020
Ourboox Unique Identifier: OB-815947
Copyright © 2020