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Biotecnologie e progresso

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Cos’è la biotecnologia?

La biotecnologia rimanda alle conoscenze naturalistiche dell’umanità intera. Conoscenze messe, poi, in pratica grazie all’evoluzione, nel corso di millenni e di secoli, della scienza e della tecnica. Due gli impieghi storici: alimentazione e cura della salute.

Ma di strada la ricerca ne ha fatta e, oggi, i campi di applicazione sono molteplici, con un numero di imprese biotech aumentato in modo significativo nel corso dell’ultimo decennio, che vede Lombardia, Lazio e Toscana in cima alla classifica delle regioni con il fatturato più alto.

Il termine “biotecnologia” vede l’unione dei sostantivi “biologia” e “tecnologia”, dove il primo designa lo studio e la conoscenza (logos) degli esseri viventi (bios) e il secondo (technè) l’applicazione e l’utilizzo di strumenti tecnici.

Compare per la prima volta in un libro di testo nel 1917, per mano di un ingegnere ungherese che lo utilizza – senza consapevolezza del suo significato, in quanto, all’epoca, si trattava di un neologismo – riferendosi alla lavorazione di alcuni prodotti agricoli.

Tra le prime definizioni ufficiali di “biotecnologia”, quella dell’European Federation of Biotecnnology (EFB) nel 1982, la quale fa riferimento all’uso integrato di microbiologia, biochimica, genetica e ingegneria chimica, “allo scopo di ottenere applicazioni di microrganismi e di altri sistemi cellulari per la produzione di composti di vario interesse o per terapie cliniche”.

Fra le molte definizioni successive, la più moderna e completa, oggi, è quella contenuta nella Convenzione sulla Diversità Biologica o CBD – Convention on Biological Diversity, trattato internazionale adottato a Nairobi nel 1992 e aperto alla firma dei Paesi nello stesso anno, durante il Summit Mondiale dei Capi di Stato di Rio de Janeiro. Secondo tale definizione, la biotecnologia – o, al plurale, le biotecnologie, a indicare la pluralità delle tecnologie sviluppate e i relativi ambiti di applicazione – è: l’applicazione tecnologica che si serve dei sistemi biologici, degli organismi viventi o di derivati di questi, per produrre o modificare prodotti o processi per un fine specifico.

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Ingegneria genetica

L’ingegneria genetica si riferisce alla manipolazione diretta del DNA per alterare le caratteristiche di un organismo (fenotipo) in un determinato modo. A volte chiamata modificazione genetica, è il processo di alterazione del DNA nel genoma di un organismo: questo può significare ad esempio cambiare una coppia di basi (A-T o C-G), eliminare un’intera regione di DNA o introdurre una copia aggiuntiva di un gene. Può anche significare estrarre il DNA dal genoma di un altro organismo e combinarlo con il DNA di quell’individuo. Utilizzata dagli scienziati per migliorare o modificare le caratteristiche di un singolo organismo, l’ingegneria genetica può essere applicata a qualsiasi organismo, da un virus a una pecora. Ad esempio, può essere utilizzata per produrre piante che hanno un valore nutrizionale più elevato o che possono tollerare l’esposizione agli erbicidi.

Il primo passo di tali tecniche di manipolazione dei geni è stato certamente la scoperta degli enzimi di restrizione, per la quale Werner Arber, Daniel Nathans e Hamilton Smith ricevettero il Premio Nobel per la Medicina nel 1978. Il processo avviene in varie fasi:

estrazione di DNA da cellule eucarioti e procarioti;

frammentazione delle molecole di DNA in segmenti più corti;

identificazione e separazione dei diversi frammenti isolati in cellule ospiti, spesso diverse dalle cellule da cui proviene il DNA isolato.

Le cellule ospiti con genoma manipolato possono esprimere i geni estranei, possono anche riprodursi e fungere da sistemi di amplificazione del gene stesso.

Per estrarre il DNA bisogna rompere le cellule trattandole con sostanze litiche e detergenti. Le molecole di DNA, separate dalla miscela di cellule con tecniche purificanti, vengono tagliate in frammenti più piccoli. Per effettuare ciò si utilizzano enzimi di restrizione, o endonucleasi di restrizione. Esse non tagliano la doppia elica a caso, bensì agiscono in sequenze bersaglio di nucleotidi creando delle estremità appiccicose/coesive (che contengono delle sequenze palindrome). Il taglio avviene mediante idrolisi. Si ottengono un numero variabile di filamenti di DNA di lunghezza variabile, legato alla presenza di sequenze bersaglio che si trovano nei plasmidi. I frammenti di DNA plasmidico e quelli di DNA eucariotico vengono legati insieme grazie alle sequenze coesive con l’intervento di DNA ligasi. I suddetti enzimi di restrizione associati ad una classe di molecole note come ligasi, costituiscono il primo vero kit delle “tecnologie del DNA ricombinante”. Tale espressione è spesso usata per intendere le varie tecniche utilizzate dall’ingegneria genetica.

Il termine più corretto per identificare un organismo con informazioni genetiche di provenienza esterna è organismo transgenico, ma nel linguaggio comune sono utilizzati anche organismo geneticamente modificato o geneticamente ingegnerizzato.

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La produzione dell’insulina

Per facilitare la spiegazione del processo di ingegneria genetica abbiamo preso l’esempio dell’insulina, una proteina che aiuta a regolare i livelli di zucchero nel sangue. Normalmente l’insulina viene prodotta nel pancreas, ma nelle persone affette da diabete di tipo 1 la produzione di insulina non avviene correttamente: le persone con diabete devono quindi iniettarsi insulina per controllare i livelli di zucchero nel sangue. L’ingegneria genetica è stata utilizzata per produrre un tipo di insulina, molto simile alla nostra, da lieviti e batteri come l’E. coli. Questa insulina geneticamente modificata, l’Humulin, ha ricevuto l’autorizzazione per l’uso umano nel 1982.

 

Il processo di ingegneria genetica

  1. Un piccolo frammento di DNA circolare chiamato plasmide viene estratto dai batteri o dalle cellule di lievito.
  2. Una piccola sezione del plasmide circolare viene tagliata via dagli enzimi di restrizione, le cosiddette “forbici molecolari”.
  3. Il gene dell’insulina umana viene inserito nello spazio creatosi nel plasmide. Il plasmide è ora geneticamente modificato.
  4. Il plasmide geneticamente modificato viene introdotto in un nuovo batterio o cellula di lievito.
  5. Questa cellula si divide rapidamente e inizia a produrre insulina.
  6. Per creare grandi quantità di cellule, i batteri o lieviti geneticamente modificati vengono coltivati in grandi recipienti di fermentazione che contengono tutte le sostanze nutritive di cui hanno bisogno. Più le cellule si dividono, più insulina viene prodotta.
  7. Quando la fermentazione è terminata, la miscela viene filtrata per ottenere l’insulina.
  8. L’insulina viene quindi purificata e confezionata in flaconi e penne per insulina per essere distribuita ai pazienti affetti da diabete.
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Micropipettaggio

I microbiologi necessitano di micropipette per lavorare con DNA, RNA e altre minuscole molecole all’interno delle cellule: esse erogano con precisione piccoli volumi di liquido – non più di 1 ml. Le micropipette misurano i volumi in microlitri, che rappresentano milionesimi di litro. Probabilmente non si noterà la differenza tra 10 e 11 microlitri in un contenitore, ma una differenza inferiore a 1 microlitro può essere vitale per ottenere risultati accurati in esperimenti microbiologici.

  1. Scegliere la micropipetta appropriata per il volume di liquido che devi trasferire. Le dimensioni comuni delle micropipette comprendono 20, 100, 200 e 1.000 microlitri. La dimensione segnata su una micropipetta indica il volume massimo che si deve trasferire con esso; una micropipetta può trasferire un minimo di 1/10 del volume contrassegnato. Utilizzare una micropipetta da 20 microlitri per 2-20 microlitri, una micropipetta da 100 microlitri per da 10 a 100 microlitri e così via.
  2. Spostare la micropipetta, la scatola delle punte delle micropipette, il liquido da trasferire, i tubi per microcentrifuga e un contenitore vuoto per lo smaltimento della punta sotto una cappa a flusso laminare.
  3. Ruotare la manopola vicino alla parte superiore della micropipetta per regolarla sul volume che ti serve; girare a destra per aumentare il volume e a sinistra per diminuirlo. Tutte le micropipette mostrano 3 cifre sul quadrante del volume. Per una micropipetta da 1.000 microlitri, la prima cifra è il 1000 posto, la cifra centrale è il 100 e la cifra inferiore è il 10 posto. Per una micropipetta da 100 o 200 microlitri, le cifre sono i 100, i 10 e i 1 posti. Per una micropipetta da 20 microlitri, le cifre sono i 10, i decimi e i decimi.
  4. Aprire la confezione dei puntali, facendo attenzione a non toccarli. Inserire l’estremità della micropipetta in una punta e premere saldamente verso il basso, quindi sollevare e chiudere.
  5. Afferrare la micropipetta nella mano dominante con il pollice sopra lo stantuffo e le dita intorno alla canna. Premere lo stantuffo finché non si sente resistenza.
  6. Inserire la punta della micropipetta appena sotto la superficie del liquido che si sta trasferendo. Rilasciare lentamente lo stantuffo, mantenendo la punta completamente immersa. Rimuovere la micropipetta dal liquido e verificare che non ci siano bolle d’aria nella punta.
  7. Inserire la micropipetta in una provetta per microcentrifuga o in un altro contenitore in cui si desidera trasferire il liquido. Premere delicatamente la punta contro una parete laterale vicino al fondo del contenitore. Premere lo stantuffo finché non si sente resistenza, fare una pausa brevemente, quindi premere lo stantuffo verso il basso. Tieni premuto lo stantuffo mentre fai scorrere la punta verso il muro e fuori dal contenitore. Rilasciare lo stantuffo uniformemente – non farlo scattare indietro.
  8. Tenere la micropipetta sopra il contenitore per lo smaltimento dei puntali e premere il pulsante sotto lo stantuffo per espellere la punta.
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Elettroforesi

L’elettroforesi è una tecnica analitica e separativa basata sul movimento di particelle elettricamente cariche (ioni, molecole) immerse in un fluido per effetto di un campo elettrico applicato mediante una coppia di elettrodi al fluido stesso. Gli elettrodi, con riferimento ad una cella elettrolitica, sono detti catodo quello che assume carica negativa e anodo quello che assume carica positiva, per cui le particelle si muovono verso l’elettrodo avente carica opposta rispetto alla carica della particella; in particolare si spostano verso il catodo se hanno carica positiva e verso l’anodo se hanno carica negativa; nel primo caso il processo è detto cataforesi, nel secondo anaforesi.

L’elettroforesi è un particolare fenomeno elettrocinetico. Un altro esempio di fenomeno elettrocinetico, simile all’elettroforesi, è l’elettrosmosi, in cui le sostanze presenti allo stato solido rimangono immobili, mentre quelle liquide migrano per effetto del campo elettrico applicato.

L’elettroforesi su gel di agarosio, nello specifico, è una tecnica classicamente utilizzata per analizzare e separare acidi nucleici. Questa tecnica sfrutta le cariche presenti nelle molecole di DNA o RNA (caricate negativamente) per farle migrare, in un campo elettrico, attraverso un gel di agarosio, un polisaccaride lineare e neutro formato da unità di D-galattosio e di 3,6-anidro-L-galattosio legate alternativamente con legami glicosidici. Il gel funge da setaccio, essendo costituito da una rete di pori, i quali consentono di separare le molecole in base alla loro grandezza: quelle più piccole attraversano più velocemente i pori rispetto a quelle più grandi quindi si avrà una separazione in funzione della velocità. L’elettroforesi su gel è una tecnica ideale per determinare le dimensioni dei frammenti di DNA digeriti con enzimi di restrizione. Per questo scopo è necessario costruire una curva di taratura in grado di fornire un valore approssimativo sulle reali dimensioni delle molecole di DNA. Per la taratura bisogna far migrare nel gel un marcatore contenente frammenti di DNA di dimensioni già note. Da questo si vede che esiste una relazione di linearità fra il logaritmo delle dimensioni del frammento e la distanza percorsa dal gel. Dalla curva di taratura è perciò possibile stabilire le dimensioni dei frammenti di DNA.

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Plasmide ricombinante

plasmidi sono molecole circolari di DNA a doppio filamento autoreplicanti, in quanto si duplicano in maniera indipendente dal genoma del batterio che li ospita, e si mantengono come entità extracromosomiali, ovvero separate fisicamente dal cromosoma batterico. In genere le loro dimensioni sono comprese tra 1kb e oltre 500kb, e sono presenti nella cellula ospite con un numero di copie che varia da 1 a 100, e in base al numero di copie che presentano nella cellula ospite si possono classificare in plasmidi ad alto numero di copie, che varia tra 10 e 100 copie, e plasmidi a basso numero di copie (1-4). Si riscontrano in quasi tutti i generi batterici e possono conferire un particolare fenotipo apportando una caratteristica aggiuntiva: ne è un esempio il fattore di fertilità F che reca l’informazione necessaria a trasferirsi da una cellula all’altra; altri plasmidi, noti come degradativi, portano geni per il metabolismo di alcune sostanze, mentre i plasmidi R recano geni per la resistenza agli antibiotici, altri ancora, noti come plasmidi criptici, non portano alcun gene codificante evidente.

plasmidi ricombinanti sono vettori ottenuti ingegnerizzando i plasmidi naturali. Questa manipolazione risulta necessaria affinché essi possano essere sfruttati nel campo della tecnologia del DNA ricombinante, in particolare come vettori di clonaggio e come vettori di espressione genica. Esistono numerose tipologie di plasmidi ricombinanti ma tutti hanno le seguenti caratteristiche:

  1. piccole dimensioni (< di 15 kbp), per aumentare la resa di trasferimento del DNA esogeno: più sono grandi più sono instabili;
  2. presenza della sequenza ori, origine della replicazione: tale sequenza è necessaria per avviare la duplicazione autonoma del plasmide all’interno della cellula ospite; può essere presente anche in duplice copia nel caso in cui il plasmide ricombinante venga fatto prima espandere in una cellula batterica e poi in una cellula eucariotica (le due ori hanno sequenza diversa). Tale sequenza è fondamentale in quanto una sua mancanza impedisce la replicazione del plasmide all’interno della cellula ospite ;
  3. marcatori genetici o geni marcatori selezionabili: tali sequenze sono necessarie per selezionare le cellule che hanno incorporato il plasmide da quelle che ne sono prive; nei casi più semplici tale sequenza può essere un gene per la resistenza ad un antibiotico come l’ampicillina, in altri casi può essere un frammento dell’operone Lac;
  4. sito di clonazione multipla o polylinker: tale sequenza contiene siti unici di riconoscimento per endonucleasi di restrizione in cui inserire il DNA esogeno.

Per l’ottenimento di un plasmide ricombinante si esegue una procedura standard sviluppata in diverse fasi:

  1. si digerisce il DNA genomico contenente il gene di nostro interesse con un’endonucleasi di restrizione, che riconosce e taglia i filamenti in corrispondenza di specifiche sequenze nucleotidiche (siti di restrizione);
  2. successivamente si digerisce il plasmide con lo stesso enzima di restrizione utilizzato per il DNA genomico e lo si tratta con fosfatasi alcalina per impedirne la riciclizzazione;
  3. il plasmide e il gene d’interesse vengono uniti insieme in presenza della DNA-ligasi T4 che crea un legame fosfodiestereo tra le estremità compatibili generando un eteroduplex e quindi un plasmide ricombinante;
  4. il plasmide ricombinante viene inserito nelle cellule batteriche in presenza di cloruro di calcio a temperature elevate (42 °C): il processo conduce alla trasformazione delle cellule batteriche.
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